Jin Ju e un Beethoven visionario
La pianista ha regalato un’ottima interpretazione delle Sonate al fortepiano
Tutte le Sonate di Beethoven, fatte rivivere su alcuni fortepiani dell’epoca in cui furono composte, esemplari di costruttori che anche Beethoven privilegiava. Nato dalla collaborazione dell’Accademia Bartolomeo Cristofori e il Maggio Musicale Fiorentino, il bel ciclo «Beethoven al fortepiano» si è concluso al Teatro della Pergola con un applauditissimo recital della pianista Jin Ju: eloquente testimonianza del formidabile smalto tecnico di questa pianista, della sua capacità di scavo espressivo, della sua volontà di raggiungere la massima chiarezza possibile, ma anche della modernità di un Beethoven ormai lontano mille miglia dagli equilibri settecenteschi e tutto proteso ad esplorare nuovi, quasi inimmaginabili orizzonti. Ancor più sorprendente, se si pensa che gli strumenti sono fortepiani del tempo, e dunque con caratteristiche sonore assai diverse, soprattutto per intensità, da quelle dei pianoforti che siamo abituati ad ascoltare oggi.
Il programma
Jin Ju, che quegli strumenti conosce assai bene, riesce a trovare in quelle sonorità raccolte una variegatissima ricchezza delle dinamiche, un’articolazione sempre flessibile e netta. La celeberrima Sonata «Appassionata» ci arriva così pensosa e allo stesso tempo inquieta, con un finale rapinoso e dai colori lucentissimi. Lo strumento è un Conrad Graf, dal suono cristallino. Per le Sonate op. 101 e op. 106 sul palcoscenico avrebbe dovuto esserci un fortepiano Broadwood, ma un incidente dell’ultimo momento nel trasporto costringe a ripiegare su un Wilhelm Lange, dal suono più corposo e dinoccolato. Ma non è un ostacolo per Jin Ju, che si adatta subito alla differente situazione sonora e realizza una Sonata op. 101 dai toni sognanti e dolci, con ritmi ben disegnati e giochi contrappuntistici netti. Il vertice della serata viene però raggiunto con la Sonata op. 106, che Jin Ju realizza con una varietà di accenti e allo stesso con una lucidità analitica davvero entusiasmanti. Un piglio fiero segna il primo tempo, una calma meditativa eppur carica di tensioni viene raggiunta nell’Adagio sostenuto. E poi il finale, dove la foga delle dita porta solitamente a un’eccitazione frenetica quanto confusionaria: Jin Ju rende invece quella Fuga con una trasparenza adamantina, sono linee che si dispongono con la precisione e la consequenzialità ordinata dei pezzi di un puzzle. E in più c’è un fuoco espressivo, mai sbracato e quasi sotterraneo, che assieme a quella affilata chiarezza ci fanno capire quanto Beethoven, ormai già completamente sordo, fosse stato visionario.
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